Profezia di capodanno

Questi ultimi giorni in Italia sono strani. Stasera, per esempio, che è capodanno e, complice una recente ennesima febbre tropicale (39 senza un apparente motivo), decido di starmene a casa, da sola, coi cani. I cani sono anziani, chissà se li rivedo, la prossima volta che torno. Poi hanno paura dei botti, poveretti. Poi sono una parte sostanziale, dal punto di vista quantitativo e qualitativo, della mia famiglia.

In questi ultimi giorni guardo un sacco di televisione. Un po’ perchè mi sono ri-trafesferita dai miei, che ne possiedono una, un po’ perchè sto realizzando varie cose cui prima non avevo pensato: ad esempio, in Germania non potrò guardare la tv, dato che ancora non so il tedesco; non potrò nemmeno andare in libreria a comprarmi un romanzo, dato che ancora non so il tedesco.

Dice quello: embè, mattànto era cinque anni che non guardavi la tv. Embè, mattànto erano due o tre anni che non ti compravi un romanzo (chè non avevi il tempo di leggerlo, e ne avevi solo per quella tua roba sulle pietre medievali) o che, se proprio te lo compravi, te lo compravi scelto a caso -più o meno con la sola guida di una critica positiva da parte del Guardian- in inglese.

E allora? E allora era uno dei motivi per cui di andare in Germania non ti fregava un cazzo: tanto il 99% delle cose che fai non sono legate strettamente al Patrio Suolo, e anzi il caffè crucco ti piace anche di più. Financo la gente, forse.

Un altro importante motivo era che non avevi scelta. Se volevi fare quel che volevi, dovevi andartene affanculo da un’altra parte, oppure niente. Oppure aspettare fino ai trentacinque anni, come il mio amico Angelo, per iniziare un dottorato all’età in cui nel resto d’Europa si lavora stabilmente all’università o si è perfino professori. E ottenerlo in un ambiente scientifico che non vi racconto, per brevità e per misericordia. Tutto questo, sostiene il mio amico Angelo, perchè “in Italia la qualità della vita”. Certo. La mozzarella di bufala campana. Quella vera, a Berlino o a Mainz mica la trovi [e nemmeno la mafia, la camorra, gli evasori fiscali, le truffe alimentari, gli affitti-strozzini, la spazzatura per strada, i treni a gasolio con le zecche eccetera].

Un terzo motivo erano gli amici. Chi lascio, se mi ritrovo pressoché sola almeno una volta all’anno da quando ho vent’anni? Chi lascio, se tutti i miei amici se ne vanno in continuazione all’estero o in una o più città italiane? Se qui niente è fermo, fisso, costante, ciclico, ripetibile e ripetuto nel tempo, che vale rimanere? Qui o là, con una vita sociale da ricostruire è uguale. L’ho già fatto molte altre volte a Bologna.

Però.

Però quando sono partita per Bologna non sapevo nemmeno di essere piemontese, l’ho scoperto dopo, quando mi sono infranta contro un’onda compatta che pensava che in Piemonte non ci avessimo niente, a parte le nebbia e le montagne -nemmeno il vino! Nemmeno Cesare Pavese!-, e che pensava che solo la Taranta valesse la pena di essere ballata.

Come i più attenti ed ossessivi lettori (ce ne sarà qualcuno?) ricorderanno, è da un po’ che ho questa sensazione di “ultima volta”. Questa cosa che stringe allo stomaco. Ce l’avevo, guardando i bei portici e i muri beatamente sporchi ma ormai taciturni della mia Bologna, molti mesi prima di sapere che mi si erano presi in Germania per fare il dottorato.

Qundi è da un po’ che, per conseguenza, sono nel mood “guardandosi indietro mentre si parte col moschetto in spalla e le scarpe -ancora per poco- appena lucidate”.

Che pena, che trovo. Che sensazione di immobilità, e di impossibilità di cambiamento. Che dispiacere.

Per esempio adesso: in tv stanno suonando i Pooh. Da quando ri-guardo la tv, ho sentito solo: Pooh, Baglioni, Renato Zero, se siamo fortunati Celentano o Mina.

Il mio amico Fausto, piuttosto radicale e incline alla visone bicolor del mondo (che, attenzione, io considero un pregio), sostiene che il problema dell’Italia è riassumibile tutto nella gerontocrazia, in tutti i campi. Io che ho un fidanzato catalano, vi posso garantire che i Catalani (e nemmeno il resto degli Spagnoli) non sono assolutamente abituati a vedere in tv personaggi, cantanti e conduttori che esistano/lavorino da più di dieci-quindici anni, con rarissime, eccellenti e giustificate eccezioni. Più che altro perchè non avrebbero audience.

Ora: i Pooh hanno rotto i coglioni. Ma anche tutti gli altri. Possibile che nessuno la pensi come me? Non guardo la tv da un sacco di tempo, e ci ritrovo esattamente la stessa gente di quando avevo ventidue, diciassette, dieci anni. Una cosa che non ha paragoni nè nella nostra breve storia, nè nei Paesi davvero “civili”, e più anziani, del mondo.

Comunque, dopo i Pooh con uno strato di cerone da far invidia a un cicisbeo del Settecento (o a Berlusconi), seguono Patti Pravo sfigurata dal botox, Loredana Bertè con cappuccio del piumino, occhiali da sole e dentiera nuova bianchissima tra labbra fucsia (in pratica la stessa porzione di volto scoperto di un infiltrato della polizia in passamontagna a Genova), Orietta Berti rossa come un’arancia e tonda come un mappamondo, Baglioni pieno di rughe in frak che si agita come il cantante dei Sex Pistols, e altre chicche sul genere.

Questo, credo, è un paradigma assolutamente valido per tutto il resto, nel mio Paese. Tutto funziona come la tv.

Per questo quelli come me se ne vanno. Molti più del 2,4% dichiarato da Letta in uno spot a dir poco pietoso in cui ho avuto recentemente la sfortuna di imbattermi su Youtube.

Che dispiacere, però.

I tedeschi tendono ad essere affascinati e immensamente gentili quando ci si dichiara italiani, specialmente verso chi, come me, viene dai laghi del nord, che loro spesso conoscono. Mi piace annuire alle loro entusiastiche dichiarazioni e cullarli e cullarmi nell’immagine solo paesaggistica, nostalgica, atemporale, che deve esistere nelle loro teste. Sono belli, quei momenti. Sono gli unici in cui mi sento fiera: ancora una volta, nell’ennesima occasione della mia breve esistenza, soltanto delle acque e dei boschi delle mie terre brumose. Roba che c’era già duemila, diecimila anni fa.

Stasera ho sentito il discorso del presidente Napolitano. Quando ero molto giovane, i discorsi dei presidenti mi sembravano sterili, annacquati, appena un riflesso della realtà dei problemi reali. Ora è lui, mi pare, l’unico che dica a chiare lettere che cosa c’è che non va; come d’abitudine, e da prassi, inascoltato.

Si diceva sicuro che i giovani che protestano non vogliono certezze, ma solo possibilità. Reali, però. Che meraviglia. E’ quello che vado ripetendo da mesi: forse in Germania non mi daranno un euro, mi prenderanno a calci nel culo e diranno che la mia ricerca fa schifo. Però, almeno, saprò che lo avranno fatto perchè davvero io facevo schifo, non perchè c’erano il nipote-cugino-fratello-succhiacazzisublime che dovevano passare prima di me.

Ce ne andiamo uno dopo l’altro. Sapete quanti sono nella mia cerchia quelli che se ne sono andati? Altro che il 2,4% di Letta, che venisse giù dal suo fottuto empireo e chiedesse a qualcuno del bar [la mia base statistica, peraltro, non include solo giovani laureati che a sedici anni leggevano Sartre, ma operai tessili, guidatori di ruspe, camerieri. Anche loro danno il benservito. E nessuno ritorna, anche se vanno in Spagna dove, stando alle cifre, si sta peggio che da noi].

Profezia di capodanno: forse succederà come quarant’anni fa. Forse la marea in aumento di migranti, nei prossimi decenni, lascerà spazio vitale economico agli estremamente coraggiosi e agli estremamente vigliacchi che resteranno e, in pochi, potranno costruire un nuovo boom economico.

Per ciò che mi concerne, dopo essermi rinchiusa per anni, consapevolmente, in una gabbia d’oro sempre più stretta (niente tv, poi niente quotidiani, poi solo Le Monde, poi nemmeno più quello, poi solo la radio, poi raramente la radio ed esclusivamente saggi scientifici sull’alto medioevo, poi solo questi ultimi e la Gazzetta dello Sport, se possibile Tuttosport), tiro fuori la testa appena prima di andarmene e trovo qualcosa che mi fa spavento (qualcosa che conoscete voi tutti, che non ho bisogno di descrivere oltre).

Dietro di me, qualcosa da cui fuggire perchè non c’è alternativa (almeno nel mio campo, e prima di dieci anni). Davanti, il solito panorama del migrante anni Sessanta: non sai la lingua, ti allontani dalla famiglia e dai parenti (cani compresi) anziani, se cadrai malato dovrai cavartela in qualche modo, gli amici chissà quando li rivedi, spera di essere in grado di fare il lavoro per cui ti hanno chiamato.

Il lato positivo è che non ci sono incertezze: tanto, qui, non facevi un cazzo. Il lato negativo è non poter prendere in considerazione nemmeno per dieci minuti l’idea di restare (chi lo fa, aspetta per anni o per sempre, e io non ne ho molti ancora da investire in verdi speranze e ottimistiche aspettative). Il lato negativo è appunto dover andarsene per forza.

Io non penso tanto alle colline del Chianti, al David, al Pantheon e al Colosseo. Io penso con commozione alle decine di mosaici che si sfaldano nascosti e ammucchiati nei sotterranei dei musei, ai dati scientifici di scavo mai pubblicati e intoccabili da terzi per avidità, baronaggio e compiacenza o indifferenza della legge, ai muri delle pievi di campagna che cadono a pezzi, agli affreschi che tra il 2010 e il 2012 scompariranno per sempre, alle pietre, alle ceramiche, agli ori e agli argenti di tutte le epoche dimenticati nei magazzini delle soprintendenze che si disintegreranno o verranno venduti dai guardiani nei prossimi giorni, mesi ed anni.

Ecco, quando penso a tutto questo patrimonio che è miracolosmente sopravvissuto alle guerre d’Indipendenza, al primo e al secondo conflitto modiale, alla prima Repubblica, e che sta andando in polvere; quando penso a questo che è l’unica, l’unica cosa a cui possiamo attaccarci adesso – il passato, la sola cosa che abbiamo ormai da un paio di secoli -, ecco, questo sì che mi fa venire il magone.

Mentre cammino verso nord, il terreno un pochino mi si sbriciola sotto i piedi. Qualcosa, mi sembra, si sbriciola a mano a mano  anche negli occhi e nelle teste dei miei amici e dei miei cari, negli oggetti  e nei tesori che se ne andranno per sempre, nei boschi che si bruciano per farne cemento, nelle facce dei personaggi tv, dei politici, dei giornalisti che inesorabili si sgretolano.

Per l’anno nuovo, banalmente mi auguro la serenità e la licenza di uscire finalmente dalla mia gabbia d’oro.

A quelli che restano, auguro di potere costruirsi una gabbia d’oro più grande, più bella, più calda, dove possano resistere, resistere, resistere fino a tempi migliori.

E’ mezzanotte meno dieci, miei cari amici.

Buon 2011, che gli Dèi vogliano, per tutti voi.

~ di cocochanel su dicembre 31, 2010.

2 Risposte to “Profezia di capodanno”

  1. coco, è un peccato che tu scriva così poco sul blog…
    39 di febbre ma molto lucida.
    merda… siamo davvero circondati da zombie. non c’è speranza.

  2. Chiedo scusa, Fradiavolo, per non aver risposto prima. Trasferirsi in un Paese straniero è un casino, e non ti lascia un attimo di tempo. Spero di poterne avere in futuro, quando avrò sistemato ogni seccatura burocratica. Anche per scrivere più spesso, come usavo fare. Grazie, come sempre, di aver letto e del commento!

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